IL TRIBUNALE MILITARE DI SORVEGLIANZA
    Ha pronunciato,  all'udienza  del  10  giugno  1991,  la  seguente
 ordinanza.
    1.  -  Con  istanza  in  data  8  maggio 1991 il detenuto militare
 Cappelluti Davide, nato a Venezia il 24 giugno 1970, ivi residente in
 via Barbarigo  n.  1,  che  sconta  presso  il  carcere  militare  di
 Peschiera  del Garda la pena di mesi quattro di reclusione sostituita
 con la reclusione militare per eguale durata inflittagli con sentenza
 del tribunale militare di Roma in data 15 gennaio 1991 per  il  reato
 di  rifiuto  del  servizio  militare  di  leva, ha richiesto a questo
 tribunale di poter espiare il residuo pena in  regime  di  detenzione
 domiciliare.  L'istanza  e' motivata dalla esistenza di una "precaria
 situazione familiare" descritta e  sufficientemente  documentata:  il
 Cappelluti  risulta  essere  l'unico figlio di due persone, una delle
 quali, il padre, anziano, l'altra, la madre, afflitta  da  una  grave
 malattia  che le impedisce la deambulazione e ne richiede la continua
 assistenza.
    Il provvedimento richiesto e' evidentemente quello di cui all'art.
 47- ter n. 4, della legge penitenziaria, quale  introdotto  dall'art.
 13 della legge 10 ottobre 1986, n. 663.
    2.  -  Il  rappresentante  del pubblico ministero eccepisce in via
 preliminare  che  l'istituto  della  detenzione  domiciliare  non  e'
 applicabile  nei  confronti  del  condannato  militare  e  chiede  di
 dichiarare inammissibile l'istanza in questione.
    Rileva il procuratore generale che l'art. 47- ter della  legge  di
 ordinamento  penitenziario  oggi  in  vigore  prevede il beneficio in
 parola non per qualsiasi pena detentiva ma  soltanto  per  l'arresto,
 qualunque  ne  sia la durata, e per la reclusione, per una durata non
 superiore a due anni. Non vi e' espressa menzione  delle  ipotesi  di
 condanna  alla  pena  della "reclusione militare", che invece si deve
 ritenere compresa (ai sensi dell'art. 23 del c.p.m.p.) nella generica
 dizione di "pena detentiva", cui altre volte  fa  ricorso  la  stessa
 legge  di  ordinamento  penitenziario,  per  esempio  nel  caso della
 liberazione anticipata di cui all'art. 54.  Tale  rilievo  letterale-
 sistematico  preclude,  per  il  rappresentante  del p.m., ogni altra
 indagine e impone la dichiarazione di inammissibilita' dell'istanza.
    Sembra  a  questo  collegio  che  il  rilievo  sia   difficilmente
 superabile   in   via  di  interpretazione,  soprattutto  perche'  la
 "reclusione militare" e' pena detentiva del tutto  assimilabile  alla
 reclusione,  ma da questa giuridicamente distinta, stante la mancanza
 di una generica norma equiparata  e,  rinvenendosi  nel  sistema,  al
 contrario,  gli  aspetti  di  differente  ed autonoma disciplina: fra
 tutti, la diversa  durata  legale  minima,  quindici  giorni  per  la
 reclusione  (art.  23  del  c.p.), un mese per la reclusione militare
 (art. 26 del c.p.m.p.).
    Sembra quindi a questo collegio che, posta la  autonoma  rilevanza
 giuridica,  nel  sistema,  della  reclusione  militare  rispetto alla
 reclusione, sia compito del legislatore  prevedere  espressamente  la
 disciplina  riservata  all'una  e  all'altra,  quando  viceversa  non
 ritenga di  affasciare  i  due  istituti  nella  medesima  disciplina
 attraverso il ricorso alla onnicomprensiva dizione "pena detentiva".
    3.  -  Tuttavia, le cadenze argomentative del procuratore generale
 non possono essere seguite sino alla conseguenza della  dichiarazione
 di    inammissibilita',    perche',   rilevato   l'ostacolo   formale
 all'applicazione del beneficio nei confronti del condannato militare,
 vi e' da dubitare che tale esclusione -  verosimilmente  dovuta  alla
 consueta   mera   dimenticanza  del  settore  penale  militare  nelle
 occasioni della riforma della legge penale comune - sia  conforme  al
 principio  costituzionale  di  equaglianza come fissato all'art. 3 in
 relazione ai principi di pari livello di cui agli artt. 2, 27, 29, 31
 e 32 della Costituzione, su cui si fonda l'istituto della  detenzione
 domiciliare.
    Invero,  per  dissipare  il dubbio in parola si dovrebbe ravvisare
 nella  reclusione  militare  una   pena   detentiva   dai   contenuti
 profondamente   diversi   rispetto  a  quelli  riferibili  alle  pene
 detentive "comuni", e, inoltre ravvisare in tali specifici  contenuti
 delle  ragioni  che  impongano  o  giustifichino,  quanto  meno,  una
 disciplina derogatoria che sacrifichi i  principi  o  beni  di  rango
 costituzionale  di  cui  il  legislatore  ha  tenuto invece conto nel
 prevedere l'istituto della detenzione domiciliare.
    Appare gia' sufficientemente  improba  la  fatica  di  coloro  che
 provino   a   connotare   la   reclusione   militare   con  caratteri
 contenutistici differenziati da quelli della reclusione  tout  court,
 cioe'  che si cimentino a ravvisare nella distinzione formale imposta
 dal  sistema  di  diritto  positivo  una  corrispondente  distinzione
 sostanziale.
    La  dottrina  piu'  avveduta ha gia' messo in guardia dai contorni
 fumosi, se non addirittura foschi e  pericolosi,  di  cui  e'  capace
 l'idea  della  "rieducazione militare" come separata e distinta dalla
 "rieducazione" tout court di cui parla l'art. 27 della  Costituzione,
 formula  in  cui,  parecchi  anni orsono, si era cercato di ravvisare
 proprio  quel  carattere  distintivo  sostanziale.   A   prescindere,
 comunque,  dalla  accorata  denuncia della dottrina e dal rilievo che
 dalla eventuale prospettiva  della  rieducazione  militare  sarebbero
 comunque  esclusi i condannati per reati "determinati da obiezione di
 coscenza", come si ricava dal regime speciale per costoro predisposto
 in materia di affidamento in prova (art. 3, terzo comma, della  legge
 29  aprile  1983, n. 167), sarebbe difficile rintracciare nel sistema
 istituti propri della reclusione militare che si ricolleghino ad  una
 idea  di rieducazione "speciale" nel senso suddetto; cio', a meno che
 non si voglia considerare tali quelle contenute nello scarno r.d.  10
 febbraio  1943,  n.  306,  che  genericamente  parla  di  "istruzioni
 militari" da impartire ai detenuti militari (art. 12), o  addirittura
 nel  d.  lgt. 27 ottobre 1918, n. 201 in cui l'unico "trattamento" di
 cui si parla e' quello  di  favore  riservato  agli  ufficiali  o  ex
 ufficiali  detenuti  circa  i  pasti, la biancheria, l'attendente e i
 mobili (parr. 452-460), per il  quale  l'unico  modo  di  uscire  dal
 carcere  diverso  dalla  pena  scontata  e'  costituito dalla "grazia
 sovrana" ottenibile dopo aver scontato due terzi di  pena  non  breve
 (parr.  418-419), o secondo cui una delle sanzioni disciplinari e' la
 c.d. "prigione di rigore con ferri". In base al prudente dosaggio  di
 cui  al  par.  634 (che distingue i trattamenti con "ferri lunghi" da
 quelli con "ferri corti").
    In ogni caso, quand'anche si ammetta che la distinzione giuridico-
 formale tra reclusione militare e reclusione rimandi ad una  speciale
 rieducazione  cui la prima debba tendere, occorrerebbe dimostrare che
 detta rieducazione, per  la  cui  attuazione  non  sembrano  esistere
 istituti   propri,   imponga   viceversa  esigenze  tali  da  cozzare
 irrimediabilmente con il finalismo rieducativo della pena comune, per
 attuare il quale si sono -  dal  1945  ad  oggi  -  creati  strumenti
 normativi, impensabili prima del 1948.
    Tale  dimostrazione  sembra non possa essere fornita: l'idea della
 rieducazione  militare   non   puo'   certo   spingere   la   propria
 materializzazione  sino al punto di negare per il condannato militare
 diritti,  prospettive,  premi  previsti  per   il   detenuto   comune
 nell'ambito  dell'esigenza  rieducativa  voluta  dalla  Costituzione;
 soprattutto non puo' in questo effetto derogatorio consumare l'intero
 suo contenuto.
    Manca,  quindi, ad avviso del collegio persino il parametro per un
 qualsiasi  eventuale  giudizio   di   bilanciamento   tra   interessi
 contrastanti,  tramite  il  quale  si  possa  "misurare" la forza dei
 principi su cui  si  fonda  il  beneficio  richiesto  dal  condannato
 militare  Cappelluti;  non e' certo lo status di militare a suggerire
 la possibilita' o la doverosita' di una minore  attenzione  verso  il
 diritto  al lavoro, i diritti della famiglia come verso il diritto al
 lavoro, i diritti della  famiglia  come  formazione  sociale  cui  si
 riconoscono  "compiti"  particolarmente  delicati,  ovvero  verso  il
 diritto alla salute; ne e' certo lo status di  militare  in  capo  al
 condannato  ad  escludere  che la pena che costui deve scontare debba
 consistere in trattamenti conformi al senso di umanita'.
    Si  e'  piuttosto  di  fronte  ad  un  trattamento  deteriore  del
 condannato   militare   rispetto   al  condannato  comune  del  tutto
 irragionevole  ed  ingiustificato,  che  va  rimosso   dagli   organi
 competenti.
    Quanto,   infine,  alla  rilevanza  della  questione  coinvolgente
 l'applicabilita' della detenzione  domiciliare  nella  decisione  del
 procedimento  in  esame,  essa  e'  di  tutta evidenza poiche' ove il
 beneficio fosse inapplicabile al detenuto militare l'istanza andrebbe
 dichiarata inammissibile, come richiesto dal pubblico ministero.